Predica: Giobbe 23, 3-17

Cara Comunità,

dov’è il Padre? Questa è la domanda che, forse, vi sarete già posti ad un punto della vostra vita. Dov’è Dio-Padre? In tutte le situazioni difficili? Quando le preoccupazioni si abbattono su di me come le onde del mare. Quando la diagnosi arriva spietata. Quando sembra che io abbia perso la forza per piangere, dov’è il Padre? Anche guardando al mondo: dov’è? Dio, spesso, sembra avvolto nell’oscurità, sembra essere assente. Deus absconditus. Il Dio avvolto nell’oscurità? Un lato di Dio. Uno chiama e chiama e chiama; ma dov’è la risposta?

L’essere umano credente non è risparmiato da questa domanda. “Perché i più pii sono quelli che devono soffrire di più?”, mi domandò una giovane donna nel periodo di vicariato. C’è una risposta? È così? In ogni caso, smaschera tutte quelle menzogne che, in ogni tempo, affermano che con una vita pia si possano tenere lontani i guai. La realtà appare diversa. Dov’è il Padre? L’uomo di cui tratta il testo ha perso molte cose. Quasi tutto. Casa, proprietà, bestie, perfino i figli. Il suo corpo è malato, sgradevole.

Sì, ha degli amici che gli fanno visita, ma non sanno come rapportarcisi. Invece di condividere con lui il pianto e il lamento, si perdono in spiegazioni: “Guarda bene la tua vita: ha di certo peccato contro Dio. Dev’esserci qualcosa, altrimenti non ti troveresti in tale miseria. Convertiti, riconciliati con il tuo Dio, arrenditi al tuo destino e le cose ti andranno meglio”: così gli parla un amico, apparentemente con parole buone; ma come potrebbe farlo, dato che non è consapevole di alcuna colpa? No, non si arrenderà. Non trova alcuna colpa dentro di sé. Continua a cercare. A cercare risposte. A cercare Dio. Dov’è il Padre: è questo il suo programma. Il suo nome è Giobbe. Ascoltiamo la lettura del passo, tratto dal capitolo 23 del libro che ne porta il nome:

 

2 «Anche oggi il mio lamento è una rivolta, / per quanto io cerchi di contenere il mio gemito. // 3 Oh, sapessi dove trovarlo! / Potessi arrivare fino al suo trono! // 4 Esporrei la mia causa davanti a lui, / riempirei d’argomenti la mia bocca. // 5 Saprei quel che mi risponderebbe, / capirei quello che avrebbe da dirmi. // 6 Impiegherebbe tutta la sua forza per combattermi? / No, egli mi ascolterebbe! // 7 Là troverebbe un uomo retto a discutere con lui, / e sarei dal mio giudice assolto per sempre. // 8 Ma, ecco, se vado a oriente, / egli non c’è; / se a occidente non lo trovo; // 9 se a settentrione, quando vi opera, / io non lo vedo; / si nasconde egli a sud, io non lo scorgo.
10 Ma la via che io batto egli la conosce; / se mi mettesse alla prova, ne uscirei come l’oro. // 11 Il mio piede ha seguito fedelmente le sue orme, / mi sono tenuto sulla sua via senza deviare; // 12 non mi sono scostato dai comandamenti delle sue labbra, / ho custodito nel mio cuore le parole della sua bocca. // 13 Ma la sua decisione è una; / chi lo farà mutare? / Quello che desidera, lo fa; // 14 egli eseguirà quel che di me ha decretato; / di cose come queste ne ha molte in mente. // 15 Perciò davanti a lui io sono atterrito; / quando ci penso, ho paura di lui. // 16 Dio mi ha tolto il coraggio, / l’Onnipotente mi ha spaventato. // 17 Questo mi annienta; non le tenebre, / non la fitta oscurità che mi ricopre.»

 

Giobbe risponde all’amico Elifaz, quello che voleva che si arrendesse a Dio; che continuasse a cercare quale peccato avesse commesso. Ma, come sappiamo dai capitoli precedenti, questo non è il caso di Giobbe. Il rapporto tra azione e conseguenza, qui, viene portato all’assurdo. Al giusto, le cose non vanno bene. Ma così dovrebbe essere, no? È un’idea ampiamente diffusa, all’epoca dell’Antico Testamento, e lo è ancora oggi, in certi ambienti cristiani. Non ha mai funzionato. Nella realtà, ha fallito. Già nel caso di Giobbe. Che vuole negoziare con Dio. Vuole parlare col giudice della sua vita. Ci sembra di essere in un’aula di tribunale.

«Esporrei la mia causa davanti a lui, riempirei d’argomenti la mia bocca. Saprei quel che mi risponderebbe, capirei quello che avrebbe da dirmi.» Giobbe vuole incontrare Dio, portare direttamente davanti a lui la sua causa. Vuole ricevere risposta da colui che ha creato cielo e terra.

Un sacrilegio, per i suoi amici: chi osa questionare con Dio faccia a faccia? Giobbe osa. Forse, perché non ha più molto da perdere. Perché è a terra. Vuole fare la propria esperienza di Dio, senza confidare nei suoi amici e i loro discorsi prudenti sul Dio giusto. È ben del suo dolore che si tratta, non di quello dei suoi amici. Giobbe vuole questionare con Dio, ma non lo trova. Percepisce la lontananza di Dio.

«Ma, ecco, se vado a oriente, egli non c’è; se a occidente non lo trovo; se a settentrione, quando vi opera, io non lo vedo; si nasconde egli a sud, io non lo scorgo.» Dio si mantiene nascosto. E qui potrebbe uscire. Potrebbe insistere sulla propria giustizia e lasciar stare la questione con Dio; anche questo gli viene consigliato di fare. Lascia stare. Che cosa te ne viene? Dov’è il Padre? Questa storia è senza tempo. Che cosa me ne viene dalla fede; dove opera, Dio? È molto più facile senza di lui. Guarda il mondo: dov’è il Dio misericordioso, che ama? Chi non conosce queste voci, che di certo non sono meno ai nostri giorni. Questi sussurratori ci sono sempre stati. La lontananza di Dio è qualcosa da reggere. Per quanto sia arduo.

Ma non solo: Giobbe avvia un movimento contrario. La sua ricerca. A Est e a Ovest, quindi in tutta la terra, cerca Dio; a Nord e a Sud, cioè nel suo passato e nel suo futuro. La speranza di trovare Dio e di essere trattato da lui con giustizia e bontà gli dà la forza per fare la sua ricerca. «Ma la via che io batto egli la conosce; se mi mettesse alla prova, ne uscirei come l’oro. Il mio piede ha seguito fedelmente le sue orme, mi sono tenuto sulla sua via senza deviare; non mi sono scostato dai comandamenti delle sue labbra, ho custodito nel mio cuore le parole della sua bocca.» Nell’Antico Testamento, nel cercare e trovare Dio c’è la promessa di vita e misericordia. Giobbe cerca e continua a cercare. Non può forzare ciò che troverà e quando. Dev’essere donato.

La sua ricerca è accompagnata da domande: Dio ha un cuore per me? È lui il Fio che prova gioia nella misericordia e che non resta irato per sempre? Dio ha un cuore per me e il mio dolore? Ci sono così tante cose negative, nel mondo; la mia sofferenza personale conta? La mia piccola lacrima? Nel testo non c’è alcuna risposta a queste domande. Non nel testo di predicazioni di oggi, almeno. In questo capitolo. Per farlo devo guardare a tutta la Scrittura, al suo centro, a Gesù Cristo. Allora vedo il cuore di Dio per il suo mondo. Il cuore di Dio per me. Ascolto parlare nel Vangelo del suo cuore per il pubblicano. Per il peccatore. Per me. Questo posso farmelo promettere da Paolo, nell’epistola, o da Paul Gerhardt, quando dice: Tu, o Dio, “conti quanto spesso piange un cristiano / e sai quale sia la sua pena; nessuna lacrima è così piccola che tu non la raccolga e non la ponga accanto a te.” (EG 324, 11). Nessuna lacrima è troppo piccola. Nemmeno la mia. Versata nella mia camera, nel silenzio, in una notte insonne. Dio vi bada. Ma torniamo a Giobbe. Come detto, se leggiamo tutto il libro di Giobbe, alla fine quasi tutto torna a posto. Le sue proprietà sono più grandi di prima, guarisce e, infine, muore sazio di giorni. Ma non è sempre così. E anche il nostro testo di oggi resta consapevolmente aperto e in atteggiamento di ricerca. E pertanto è così vicino alla vita. Giobbe è spaventato dal suo Dio, di cui si sente in balìa. “Quello che [Dio] desidera, lo fa; egli eseguirà quel che di me ha decretato”. Giobbe potrebbe tacere. Dio è lontano. Dio vuol essere cercato. Per Giobbe, si tratta di restare saldo. Non vuol lasciar andare il suo Dio. Come il suo antenato Giacobbe, in riva allo Iabboc, che lottò addirittura con Dio. Come il popolo d’Israele nei lunghi anni nel deserto. Come Gesù nel Getsemani. Giobbe vuole restare saldo. Diventa l’archetipo dell’Homo quaerens, dell’essere umano che cerca Dio. Sempre e in modo sempre nuovo. Il suo lamento lo conduce dalla passività all’azione. “Dio, tu taci. E io mi rifiuto di rispondere sempre di nuovo col silenzio” (Christina Brudereck). Non rispondere al silenzio col silenzio. Chi si lamenta, agisce. Resta saldo al suo Dio. Non si arrende.

Forse è questo ciò che possiamo imparare da Giobbe: restare saldi a Dio, anche in giorni lontani. Lamentarci con Giobbe. Nella speranza che possiamo tornare a giubilare insieme con lui. Quant’è bene che la nostra fede conosca il lamento. In così tanti testi della nostra Sacra Scrittura. In salmi e in canti. Dov’è il Padre? Mi auguro che sia al fondo del lamento. Nella profondità più profonda. Lì dove essere toccati da lui. Rimessi dritti in piedi e ricevendo forza per il prossimo passo.

Amen.

XI Domenica dopo Trinitatis – Pastore Patrick Spitzenberger