Geremia 16, 16-21

16 «Ecco, io mando un gran numero di pescatori a pescarli», dice il SIGNORE; / «inoltre manderò gran numero di cacciatori a dar loro la caccia / sopra ogni monte, sopra ogni collina
e nelle fessure delle rocce.

17 Poiché i miei occhi sono su tutte le loro vie; / esse non sono nascoste davanti alla mia faccia, / la loro iniquità non rimane occulta ai miei occhi. / 18 Prima darò loro una doppia retribuzione per la loro iniquità e per il loro peccato, / perché hanno profanato il mio paese, / con quei cadaveri che sono i loro idoli ripugnanti / e hanno riempito la mia eredità delle loro abominazioni».

19 SIGNORE, mia forza, mia fortezza e mio rifugio nel giorno dell’avversità! / A te verranno le nazioni dalle estremità della terra / e diranno: «I nostri padri non hanno ereditato che menzogne, / vanità, e cose che non giovano a nulla.

20 L’uomo dovrebbe farsi degli dèi? / Ma già essi non sono dèi».

21 «Perciò, ecco, io farò loro conoscere, questa volta / farò loro conoscere la mia mano e la mia potenza; / sapranno che il mio nome è il SIGNORE.»

 

 

Cara Comunità,

la festa degli apostoli Pietro e Paolo quest’anno cade di domenica. Questo irrita i lavoratori di Roma perché ne risulta un giorno in meno di festa; ma noi come comunità ne siamo felici perché, questa festa, che nell’ambito evangelico è poco celebrata, ne guadagna in dignità e importanza.

Da noi, comunque, questa dignità già la possiede, perché è una festa romana, forse la più romana di tutte le feste cristiane e quindi è, naturalmente, anche festa nostra, festa della nostra comunità romana.

Sottolineo l’aggettivo romano per dire questo: è romana cristiana e non romana cattolica. Ma tuttavia non è così semplice per predicatori e predicatrici evangelici. C’è una specie d’istinto naturale a intraprendere involontariamente due operazioni: primo, più Paolo che Pietro; secondo, più la dottrina che la persona.

Perché è così?  Ci sono diverse ragioni. Una di queste è molto semplice e riguarda perché conosciamo meglio il pensiero di Paolo che quello di Pietro. Perché Paolo ha scritto una serie di lettere, molto importanti per la dottrina cristiana. Inoltre, sono fondamentali in specie per il cristianesimo evangelico. Si percepisce come una linea diretta da Paolo a Lutero e da lì a noi.

Un’altra ragione è, naturalmente, che Pietro come persona è inseparabile dal ministro petrino e  da tutti i dibattiti ad esso pertinenti.

Quindi, spesso, c’è più Paolo che Pietro e più dottrina che persona.

Entrambe le cose, quest‘anno, non funzionano. E ciò ha a che fare col testo per la predicazione. Le pericopi della nostra Chiesa prevedono, per la predica di quest’anno, un testo dell’Antico Testamento. In un primo momento, me ne sono meravigliato: Pietro e Paolo nell’Antico Testamento; come può essere? Non c’erano ancora.

Abbiamo ascoltato poco fa, come lettura, il testo scelto. È tratto dal libro del profeta Geremia e comincia così: «Ecco, io mando un gran numero di pescatori a pescarli». In un primo momento, ho pensato: l’unico legame con la nostra festa di oggi è la parola “pescatori”. Certo, questo allude a Pietro, che era pescatore. Ma, se limitato a questo termine, il legame appare piuttosto superficiale.

Comunque, dobbiamo parlare soprattutto di Pietro (e non di Paolo) e dobbiamo parlare della persona (e non di una qualche dottrina). Perché qui non si parla di una dottrina dei pescatori, e di fatto un pescatore non lavora con la dottrina, ma col suo impegno. Ciò vale, inoltre, anche per i pescatori d’uomini, come li chiama il Vangelo, che, in definitiva, sono intesi qui.

Ma il testo non è connesso in modo superficiale a Pietro grazie alla parola “pescatori”. È soprattutto la seconda parte ad essere ricca di contenuto. Nella mia Bibbia, ha un sottotitolo: “le nazioni conosceranno Dio”. Ed è di questo che, di fatto, si tratta.

Entra in gioco una tonalità che, inizialmente, ci fa sentire a disagio. “A te verranno le nazioni dalle estremità della terra e diranno: «I nostri padri non hanno ereditato che menzogne, / vanità, e cose che non giovano a nulla». No, non ci sentiamo a nostro agio. Perché, naturalmente, il profeta parla dalla prospettiva di un popolo, del vero popolo, del popolo d’Israele e questo, nero su bianco, vuol dire: i tuoi dei sono nullità perché il mio Dio è quello giusto.

Per estremizzare: tu, musulmano, cattolico, valdese ha puntato sul cavallo sbagliato. Perché solo il nostro Dio è il vero Dio. Non ci sentiamo a nostro agio, con una retorica del genere, perché questo diventa subito un discorso d’intolleranza, superbia e, in ultima istanza, anche di violenza.

Non ci sentiamo a nostro agio, ma entra in scena un tema che non possiamo e non dobbiamo evitare. Perché se riferiamo tutto questo a Pietro e meditiamo su Pietro, allora, all’improvviso non solo meditiamo su una persona, cioè su un personaggio storico, vissuto molti secoli fa e che quindi ci è diventato in qualche modo estraneo e lontano, ma meditiamo anche sulla sua funzione. Meditiamo sulla questione operi in modo permanente e su come caratterizzi il cristianesimo, anche la nostra fede cristiana.

Perché questo testo profetico non ha a che fare un po’ con Pietro e con Paolo, solo se noi vi vediamo rispecchiato qualcosa del loro servizio e del loro impegno. E non solo la definizione professionale di “pescatori”.

“Le nazioni conosceranno Dio”. Diciamolo in modo diretto e schietto, subito: si tratta di un incarico di predicazione universale. O, se volete essere ancora più diretti: si tratta di guida spirituale universale.

Ed è qui che ci sentiamo molto a disagio. Nel protestantesimo, c’è una sfiducia, profondamente radicata (e, secondo me, sana) verso una siffatta guida universale. Per non parlare del “ministero petrino”. Ciò ha la sua ragione nel detto potenziale di superbia, intolleranza e violenza.

Chi sono, io, per salvare il mondo intero? Chi mi dà il permesso di parlar male degli dèi altrui? Chi mi autorizza a portare tutte le nazioni sotto la mia guida spirituale? Non è proprio questo uno degli aspetti più problematici del cristianesimo?

Se accettiamo anche solo parzialmente l’idea che Pietro e il ministero petrino romano siano correlati, allora dovremmo dire che tali remore non sono del tutto questioni di lana caprina. Per quanto l’attuale successore di Pietro abbia cominciato il suo pontificato con la parola pace e l’abbia posto all’insegna della pace, i suoi predecessori non lo hanno sempre fatto; anzi, spaventosamente spesso fecero il contrario. Sono specialista in Storia della Chiesa; so di che cosa parlo.

Eppure, penso che dovremmo porci la questione, anzi, che dobbiamo porcela. Perché il protestantesimo, spesso, come alternativa non ha escogitato niente di meglio che nascondersi nel particulare e in ciò che è provinciale: la nostra cerchia domestica, la comunità locale, il decanato e, se abbiamo voglia di osare, la Chiesa regionale.

Ma non basta! Il fatto che siamo un solo mondo e una sola umanità in una società globale. E che abbiamo bisogno di un ordinamento di pace: questi non sono solo fatti economici e politici, ma sono fatti anche religiosi. E si deve domandare quali dèi abbiano gli altri popoli e come li venerino. Domandare in modo prudente e pieno di tatto, naturalmente.

Tra 14 giorni, avrò l‘occasione di predicare durante il culto all’università, a Monaco. Mi piacerebbe invitarvi tutti a parteciparvi. Perché, come testo per la predicazione, ho uno dei testi più grandiosi dell’Antico Testamento. Si tratta del pellegrinaggio delle nazioni a Sion, in Isaia e Michea. Tutte le nazioni diranno: «Venite, saliamo al monte del SIGNORE»; e più oltre: «essi trasformeranno le loro spade in vomeri d’aratro, e le loro lance, in falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra, e non impareranno più la guerra.» (Is 2, 3-4).

Non è che l’apertura all’universalità porti per forza alla guerra; al contrario. È una via di pace.

E se leggiamo attentamente, è questo che ci dice anche il nostro testo per la predicazione. Il testo non dice che dobbiamo imporre agli altri le nostre pretese di verità. Ma è così che le nazioni verranno spontaneamente; noi tutti veniamo e riconosciamo dove abbiamo mancato. La soluzione non è la nostra predicazione e guida universali. La soluzione, invece, si trova nell’ultimo verso: «Perciò, ecco, io farò loro conoscere la mia mano e la mia potenza; sapranno che il mio nome è il SIGNORE.»

A ciò non serve aggiungere altro. Se non, forse, come ultima nota a piè di pagina, questo: non dobbiamo avere paura della guida universale e nemmeno del ministero petrino universale. Al contrario, è una grande opportunità per la pace e la comprensione. Finch abbiamo chiaro questo: non siamo noi, né è Pietro a convertire le nazione, ma è Colui che dice: «Farò loro conoscere la mia mano e la mia potenza; sapranno che il mio nome è il SIGNORE.»

Amen.

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Pietro & Paolo, Prof. Dr. Martin Wallraff