Il futuro del cristianesimo

Conferenza inaugurale del 24° Sinodo

 e in occasione del 75° anniversario della fondazione della
Chiesa Evangelica Luterana in Italia

25 aprile 2024, Christuskirche di Roma

Interpellare uno storico quale sia il futuro di qualcosa è, eminentissimo Signor Cardinale Fernández, care Sorelle e cari Fratelli, un’idea molto rischiosa; e io sono, per buona parte della mia professione, storico: storico del cristianesimo antico, per essere esatti. Interpellare uno storico è un’idea rischiosa, quindi, perché, di professione, si occupa del passato e non del futuro. Lo storico può, per così dire, predire ex-post il passato di cui si è perduta la conoscenza esatta o che è diventato molto oscuro, basando su ipotesi una buona parte della sua ricostruzione del passato. Così come la previsione del futuro è basata su ipotesi, perché non ne esiste una conoscenza esatta o perché è diventato molto oscuro. Ho pensato a lungo che quest’analogia strutturale tra lo storico, che ricostruisce il passato, e lo scienziato che (come il futurologo) predice il futuro, è oggetto anche di un detto famoso di Friedrich Schlegel (1772-182), esponente del primo Romanticismo tedesco. Schlegel, in un frammento della rivista “Athenäum“ del 1798, scrisse che “lo storico (…) è un profeta al contrario“. Oggi so che Schlegel intendeva qualcosa di affatto diverso: quel filosofo della cultura muove da una filosofia della Storia fondata su base cristiana e teologica e parla, in quel frammento, dello storico così formato, che guarda al passato e, poiché lo vede come parte della storia della salvezza di Dio, guardando in retrospettiva alla storia passata della salvezza può osare anche di guardare al futuro, perché la storia della salvezza di Dio per e con il suo mondo non è finita col presente, ma  procede verso il futuro.

 

E, in generale, vale anche questo: osservando qualcosa e spiegando (seppure in forma ipotetica) come sia diventato quel che è, intendiamo anche, al tempo stesso, anche predire che cosa ne deriverà; già Aristotele nota che, se si vede davanti a sé un strumento e se ne ricostruisce la formazione dal legno, al tempo stesso si pensa anche sempre che tale strumento, in futuro, verrà suonato. L’idea di Friedrich Schlegel che lo storico provveduto di formazione cristiana e teologica studi il piano di salvezza divino nei testi e negli avvenimenti del passato, risale nel suo nucleo a Ireneo, vescovo di Lione, originario dell’Asia Minore, attivo in Gallia ai tempi dell’impero romano. Nel suo “Contro le eresie“, Ireneo, negli anni ’80 del II secolo, scrisse che Dio “come un architetto, ha delineato un piano di salvezza“ (fabricationem salutis ut architectus delinians).

Naturalmente, ci sono molte possibilità di parlare del futuro del cristianesimo; ma io non sono né giurista né sociologo e, qui, resto nell’ambito della mia professione, guardando al passato, nel senso inteso da Friedrich Schlegel e Ireneo di Lione, e derivandone previsioni per il futuro, anzitutto come storico e poi anche come storico che pensa in senso cristiano e versato per la teologia, che non si perita di ricercare nella Storia anche la storia della salvezza di Dio. Naturalmente, so che, specie nel XX secolo, la storia della salvezza non ha goduto di molto prestigio, nella teologia evangelica (in particolare fu Rudolf Bultmann a esprimersi in modo molto critico su di essa) e, naturalmente, mi è chiaro che, nel dialogo ecumenico, a questo punto si aggiunga una sfilza di domande; magari, dopo le conferenze, ci sarà l’opportunità di sollevare e approfondire tali questioni. Ma mi preme, a Roma, non ripetere discorsi che, in Germania, è diventato usuale ascoltare sul tema del “futuro del cristianesimo“ ed è importante, per me, in occasione del giubileo della Chiesa Evangelica Luterana in Italia, non fare come se stessi parlando della Chiesa Evangeica in Germania. Negli scorsi 75 anni, sono accadute molte cose che, in Germania, non ci si immaginerebbero: non penso solo all’entrata di comunità prevalentemente di lingua italiana e alla crescente importanza del bilinguismo in tutte le comunità, ma penso anche alla possibilità, che si è avuta per la Chiesa evangelica, grazie alla firma dell’Intesa nel 1995, di far pervenire alla CELI, con una firma sulla dichiarazione dei redditi, l’otto per mille delle imposte sui redditi già pagate; tutto questo ha molto poco a che fare con la forma tradizionale del sistema delle tasse ecclesiastiche e con l’ecclesialità di lingua tedesca che conosco in Germania, nonostante tutte le buone relazioni tra CELI ed EKD.

In Germania, la maggior parte delle conferenze sul futuro del cristianesimo cominciano indicando i numeri drammatici dell’andamento delle iscrizioni dei membri di Chiesa (di norma con numeri concreti delle quote di battesimi e delle uscite dalla Chiesa), da cui si derivano supposizioni sulle cause e previsioni per il futuro della Chiesa o addirittura del cristianesimo nel Paese.

Di solito tutto ciò ha un tono molto pessimistico e un po’ apocalittico.

All’inizio della primavera del 2019, per la prima volta le cifre attuali delle uscite dalla Chiesa, relative all’anno precedente, furono integrate dai risultati di una previsione di lungo termine, prodotta dal Centro di Ricerca sui contratti generazionali di Friburgo. L’istituto prevedeva allora, per il 2060, 10,5 milioni di membri delle Chiese evangeliche in Germania; vale a dire, se i presupposti sono adeguati e le previsioni esatte, metà delle persone che attualmente fanno parte della Chiesa evangelica. I ricercatori attribuiscono il dimezzamento presunto, oltre che ai cambiamenti demografici, soprattutto al calo della cosiddetta quota dei battesimi (cioè della quota di battezzati nella popolazione), al legame sempre più lasco con la Chiesa e al crescente numero di uscite dalla Chiesa che ne deriva.

Per usare una formulazione più precisa: meno della metà del calo è spiegabile col cambiamento demografico. Questo sviluppo, secondo i ricercatori, interessa entrambe le Chiese grandi all’incirca allo stesso modo; si prevede che, nel 2060, in Germania ci saranno ancora 22,7 milioni di cristiani, invece di 44,8 milioni. Le entrate dalla tassa ecclesiastica resteranno, sì, nominalmente costanti (presupponendo che il sistema relativo continui a sussistere), ma poiché la perdita di potere di acquisto, causata dal calo dei membri, non potrà essere compensata in futuro, si renderanno necessarie forti misure di risparmio riguardanti il personale e le offerte della struttura ecclesiastica; le relative discussioni sulle modalità di risparmio saranno, come insegna l’esperienza, tanto lunghe quanto estenuanti. Se la previsione dell’istituto di Friburgo sul futuro del cristianesimo ecclesiale in Germania fosse esatta, ciò comporterebbe la fine della forma della Chiesa nazionale come l’abbiamo sempre sperimentata e apprezzata, a parte alcuni singoli crolli, per esempio nelle zone rurali della Germania Orientale.

Occasionalemente si sente dire che la “secolarizzazione“, cioè la rimozione, scritta nel DNA dell’Età Moderna, della religione da tutti gli ambiti della vita, e anche delle interpretazioni del mondo, sia la vera responsabile dell’allentamento del legame con la Chiesa, della calante disponibilità a far battezzare i bambini e a cercare la benedizione della Chiesa per svolte della vita come nozze ed esequie, cioè degli sviluppi previsti dai ricercatori di Friburgo. Ma non è così semplice. Perché, nel frattempo, si vede sempre meglio che non è il significato della religione a sparire sempre di più, nell’Età Moderna, ma che a cambiare sono posizione e forma della religione. Ciò dovrebbe essere ora sviluppato in modo differenziato, perché posizione e forma della religione cambiano: non solo sono diverse nei continenti e nei Paesi, ma anche nelle regioni e talvolta anche in base alla località. Azzardo una descrizione complessiva dell’ambito della Chiesa Evangelica in Germania: al posto delle caratterizzazioni unitarie confessionali dei territori tedeschi è comparsa una grande pluralità. Molti non si legano più volentieri a istituzioni e desiderano che la religione sia come il buffet di una caffetteria: si sceglie quel che piace al momento e poi si beve tranquillamente anche vino rosso col pesce. È una novità quante persone, cui manca la religione, ritengano che secondo loro non gli manchi nulla; anzi, le persone non sanno neanche che manchi loro qualcosa (ad ogni modo, considerate le cose dalla prospettiva determinata dalla fede cristiana). Ma questa situazione si spiega anche col fatto che, per decenni, perfino i dirigenti formati non si sono arrischiati a domandare alle persone della loro fede o della loro mancanza di fede e a parlare della propria fede (e dei propri dubbi). Naturalmente, ci sono pochi che, fin dalla nascita, possiedono il talento di instaurare di tali colloqui, ma si può imparare a farlo e ci sono offerte pertinenti. Se l’aspirazione al senso ultimo della vita, che trascende il contesto terreno, cali in modo insalvabile, è difficile da giudicare. Trovo, comunque, che ci siano ancora molte persone che, sebbene non necessariamente in forma tradizionale, vogliono discorrere di tali questioni o che cercano informazioni su di esse. E l’estraneità verso le risposte e le forme cristiane, in cui queste risposte cristiane vengono vissute, non è sempre superabile, ma è sempre superabile per mezzo di (come si suol dire) offerte di bassa soglia e  di porte aperte.

Già per questo lo sviluppo previsto dal centro di ricerca non è un destino ineluttabile e neanche volontà divina cui tutti debbano adeguarsi, privi di volontà. Ma che cosa si deve fare? Che cosa si può fare? Si dovrebbero cogliere con cuore intrepido le opportunità che Dio ci apre e che la sua Chiesa avrà di certo anche in futuro; questo è chiaro. Ma, nella seconda parte di questa conferenza, non voglio parlare subito delle opportunità del cristianesimo nel presente e nel futuro; voglio, invece, fare anzitutto ciò che ho annunciato all’inizio. In primo luogo, desidero guardare alla storia del cristianesimo antico e alle opportunità che si aprirono, allora, al cristianesimo, prima di trarre da questo sguardo retrospettivo osservazioni più o meno profetiche sul presente e quindi anche sul futuro. Il tardo impero romano è paragonabile al nostro presente in alcuni punti, facendo astrazione dalle differenze: in entrambi i casi, abbiamo molteplici manifestazioni di crisi; ne nomino solo quattro, in forma di  movimenti migratori generali, sviluppi drammatici sul mercato finanziario, grandi pandemie e collasso del sentimento di solidarietà che finora esisteva nella società e con lo Stato. Anche per questo vale la pena considerare la composizione delle opportunità del cristianesimo, allora e oggi. Comincio dalle osservazioni sulle opportunità del cristianesimo nell’antichità.

Se, per alcuni istanti, dimentichiamo tutto ciò che sappiamo sulla storia del cristianesimo fin dalle sue origini e immaginiamo solo l’inizio in riva al Lago di Genezareth e nella piccola città di Gerusalemme, allora la risposta alla domanda sulle opportunità del cristianesimo nel primo secolo è in effetti una risposta negativa. Un tale movimento non poteva avere la minima possibilità né sul mercato religioso dell’antichità né altrove nell’impero romano. In sintesi:

Il cristianesimo cominciò come gruppo religioso dell’ebraismo nell’estremo lembo dell’impero romano, nella provincia più profonda, dunque in una regione insicura, in cui nessun funzionario o soldato romano era contento di essere trasferito. Il suo capo, in quanto aspirante Messia, fu giustiziato dalle forze di occupazione romane in modo particolarmente disonorevole e vergognoso, e i primi autori romani che scrissero di lui non riuscirono neanche a scriverne il nome in modo esatto. Dalla parola greca Χριστός trassero Chrestus, nome da schiavo, perché, naturalmente, non sapevano che Χριστός era solo la traduzione dell’ebraico Messia (e non l’avrebbero nemmeno capito); al massimo, possono essersi ricordati che la parola νεόχριστος significa spalmato di fresco. Benché, dunque, il protagonista del movimento fosse morto di una morte da schiavi e il movimento stesso originasse nell’angolo più remoto dell’impero romano, pretese molto dai suoi membri. Si aspettavano, dai loro seguaci, che credessero contro tutta la realtà esperibile; che quel Messia, che era stato ignominiosamente croficisso, viveva, insediato da Dio come Signore del mondo e che sarebbe ritornato in gloria. Inoltre, o meglio a causa di ciò, si pretendeva dai seguaci l’impegno missionario nel diffondere il messaggio. In diversi passi del Nuovo Testamento, per esempio nel Vangelo di Luca, queste pretese particolarmente alte vengono formulate a persone che, di fronte alla fine vicina, vanno in tutto il mondo per annunciare il messaggio. Gesù disse loro: «Non prendete nulla per il viaggio: né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non abbiate tunica di ricambio. In qualunque casa entrerete, in quella rimanete e da quella ripartite. Quanto a quelli che non vi riceveranno, uscendo dalla loro città, scotete la polvere dai vostri piedi, in testimonianza contro di loro» (Luca 9, 3-5).

Per noi è ovvio riconoscere questo aspirante Messia come Signore e Salvatore della nostra vita. Come abbia visto la cosa una persona istruita, non cristiana, nel mondo antico, lo scrittore Arno Schmidt l’ha così formulato, qualche anno fa:

“Che cosa diremmo noi, oggi, se un giovane uomo venisse da qualche staterello insignificante, senza padroneggiare nessuna delle grandi lingue di cultura, del tutto a digiuno di quel che, nei secoli, hanno prodotto scienza, arte, tecnologia e anche le religioni precedenti, e si ponesse davanti a noi pronunciando parole grosse: “Io sono la via e la verità e la vita“? Anzitutto, dovremmo ricorrere ad un interprete per farci tradurre faticosamente quanto detto in un dialetto barbaro; per metà divertiti e per metà incapaci di comprendere, gli daremmo questo consiglio: ‘Giovanotto, prima vivi e impara; poi, fra trent’anni, ritorna!’.“

Gli storici antichi colti definirono quindi il cristianesimo come exitiabilis superstitio, “superstizione perniciosa“ venuta da Oriente: Nihil aliud inveni quam superstitionem pravam, immodicam “Non trovai altro che una superstizione malvagia, smodata“, riferì all’Imperatore, a Roma, il governatore della Bitinia, riguardo alle proprie indagini giudiziarie sui cristiani. Un filosofo platonico del II secolo, naturalmente esagerando per polemica, scrive sui cristiani, che evidentemente non trovava seduti sui banchi delle aule nell’antica metropoli di Alessandria:

“Lavoratori tessili, ciabattini e tintori, gente non istruita e incivile, che non osa profferir verbo davanti a padroni di casa più anziani e competenti, se però possono avere davanti a sé mogli e figli, diranno le cose più bizzarre, proponendogli di non attenersi al padre e al maestro, ma di seguire solo loro.“

I maestri cristiani, secondo il filosofo, potevano solo “sviare gli ignoranti“ e reclutare le loro schiere di ascoltatori tra “i pazzi e gli schiavi“. Ciò era riprovevole quanto un medico che, sapendo di non poter guarire, trattenesse però le persone dal cercarsi un medico davvero ben preparato. Il filosofo mette in guardia, con parole forti, da questa “religione degli sciocchi“, da un “insegnamento ingenuo“ per gente ingenua, uscita di senno, anzi, abbandonata dalla ragione universale stessa.

Benché l’impero romano possedesse una struttura di base multireligiosa e tollerasse molte religioni, il giovane cristianesimo non aveva quasi possibilità di diffusione, a differenza, per esempio, del culto di Mitra, molto amato da soldati e ufficiali. Ciò dipendeva dal fatto che non condivideva i fondamenti intellettuali di questa tolleranza religiosa e non si accordava, in compromesso pacifico, con le altre religioni. Il cristianesimo richiedeva dai suoi seguaci la venerazione esclusiva di un solo Dio, del Padre di Gesù Cristo, e, seguendo la tradizione ebraica, dichiarava demoni e nullità tutti gli altri dei. I teologi cristiani mettevano in guardia dal partecipare al culto di Stato, da cui dipendeva in gran parte anche la prosperità dello Stato. Ciò chiamava in causa l’autorità statale romana, perché un tale modo di agire metteva a rischio l’ordine pubblico e anche la prosperità dello Stato, basata sulla religione. Solo la disciplina penale fattasi più lasca, nell’impero romano, impedì che il cristianesimo fosse annientato: fin dall’inizio del II secolo, chi, dopo essere stato ammonito, si dichiarasse cristiano, era minacciato di venire giustiziato. Solo il fatto che molti governatori di provincie romane non avevano interesse, durante il loro periodo di servizio, relativamente breve, a rovinare  la quiete della provincia con processi ai cristiani, il numero delle vittime di questa situazine giuridica restò relativamente modesto, anche durante le grandi persecuzioni del III secolo e della prima parte del IV secolo.

Per me è discutibile che gli antichi abbiamo riconosciuto il cristianesimo come religione “giusta“. A differenza dei templi magnifici, che ci impressionano ancora oggi, pur se allo stato di rovine, e delle grandi cerimonie religiose, il cristianesimo puntava sulle riunioni, concentrate sulla Parola biblica; riunioni che avevano forma di servizio divino in case private; un atto costitutivo caratterizzato fortemente dal contesto di una provincia remota e che, sul piano linguistico, non faceva parte della letteratura alta. Non c’erano sacrifici cruenti; all’inizio neanche grandi processioni per mercati e strade cittadine, né culto ufficiale nelle solennità statali, con funzionari imperiali e militari.

Se si hanno chiare queste circostanze, si arriva a stabilire che il cristianesimo del I secolo era, per le persone in qualche modo istruite, un’offerta religiosa pressoché priva di prospettive. Come ha fatto il cristianesimo a sopravvivere all’antichità?

Naturalmente, c’è tutta una serie di ragioni per cui questa religione, a prima vista priva di prospettive, abbia riportato la vittoria su altri culti antichi, apparentemente molto ricchi di prospettive. Tempo fa, ho cercato di metterle insieme in un libro e perciò voglio trarne solo tre di tali motivi, che sono interessanti per noi, stasera, come opportunità per il cristianesimo.

Una prima spiegazione si trova nell’imperatore Giuliano che, nel tardo IV secolo, tentò di restaurare (ma in definitiva senza successo) il culto statale pagano. L’imperatore apostata, in una lettera al sommo sacerdote di Galazia, attribuì il successo dei “Galilei senza Dio“, come, alludendo alla provincia da cui originava la loro religione,  chiamava i cristiani, alla ben riuscita attività di assistenza diaconale dei cristiani e alla mancanza, da parte pagana, di strutture e mentalità analoghe. Da parte cristiana, il “senso di umanità verso gli stranieri, il provvedere alla sepoltura dei morti e la (…) purezza dello stile di vita“ avrebbero promosso al massimo quella “empietà“, vale a dire la fede cristiana. L’imperatore sentiva come “smacco“ che “i Galilei senza Dio“ “oltre ai loro nutrano anche i nostri, ma che i nostri debbano fare a meno di aiuto da parte nostra“. Di fronte a tali idee, non desta meraviglia che l’imperatore, nel concludere la lettera ai sacerdoti pagani, raccomandasse di edificare ostelli per stranieri, rifugi per mendicanti e asili per giovani donne e che sollecitasse l’istituzione di distribuzione gratuita di cibo ai poveri. Riguardo a tale punto, tuttavia, era troppo tardi per tali affrettate contromisure, perché la cristianizzazione estesa aveva da molto tempo preso piede in tutti i ceti sociali e nella stessa casa imperiale. L’imperatore apostata restò “una nuvoletta“, come lo definì un vescovo cristiano, in una polemica contro di lui. Non passeggera, ma calzante mi pare, comunque, l’osservazione di Giuliano che l’intensa attività diaconale dei cristiani, il loro provvedere a poveri, vedove e orfani, vecchi e malati, che aveva migliorato in misura notevole, nell’impero, le opportunità opache della nuova religione, abbia contribuito in misura essenziale all’ascesa del cristianesimo. Un segno linguistico di tale rapporto è la parola “elemosina“ (ἐλεημοσύνη): usata da ebrei e cristiani, è migrata nel greco e nel latino. Il cristianesimo, nell’antichità, costruì reti sociali che non si riallacciavano alle premesse usuali nella società romana e che, proprio per questo, erano attraenti per membri di tutti i ceti sociali. In tal modo, in ultima analisi, cambiò il volto intero del mondo antico.

Nomino un secondo punto di cui, grazie a scritti di cristiani e di pagani, sappiamo che, nell’antichità, accrebbe notevolmente le opportunità del cristianesimo, in sé e per sé modeste, così da contribuire a far sì che il cristianesimo sopravvivesse all’età antica. Le persone esperirono il cristianesimo come religione potente ed energica, perché i cristiani guarivano le malattie. Ce ne sono innumerevoli testimoni, nell’antichità. Per esempio, veniamo informati che, nel V secolo, uno sceicco beduino, di nome Aspebeto, passò al cristianesimo, insieme con tutta la sua tribù, originaria della Persia, perché un monaco dei dintorni di Gerusalemme era riuscito a guarire il figlio “mezzo morto“, come dice drasticamente la biografia del monaco, restituendogli la salute dopo che tutta l’arte medica e la tecnica magica avevano fallito. “Dov’è tutta l’arte medica?“, fa esclamare la biografia al padre disperato, davanti al monastero del monaco. “Dove sono le idee dei nostri maghi e la forza delle nostre celebrazioni religiose? Dove sono le invocazioni? E i miti degli astronomi e degli astrologi? (…) Ecco, niente di queste cose ha forza.“ Ma “forza” l’ha il segno della croce, con cui il monaco “suggella” il ragazzo mezzo morto, come è scritto nella vita. Proprio questa forza, però, muove i beduini saraceni a voler saperne di più su questa religione che opera miracoli e a farsi battezzare. Già nel Nuovo Testamento si può vedere che fu la forza speciale dei cristiani in rapporto alle malattie e ad altre condizioni negative della vita individuale e sociale a impressionare le persone e a incoraggiarle a diventare cristiane.

Come terzo e ultimo punto desidero nominare l’attrattività specifica del messaggio cristiano, che ha migliorato in modo massiccio le opportunità modeste del cristianesimo nel mondo antico. Con attrattività specifica intendo che il messaggio cristiano da una parte era espresso in modo così elementare che anche la persona più semplice poteva comprenderlo e poteva credervi, ma soprattutto poteva attuarlo praticamente nella vita. D’altra parte, il messaggio cristiano era così profondo e stimolante che, già nel tardo II secolo, si confrontarono con esso intellettuali di punta, che poi passarono al cristianesimo. L’élite intellettuale del mondo antico prese nota con stupore che suoi singoli rappresentanti avevano cominciato a interpretare il cristianesimo come coronamento della filosofia e che, con tali tesi, erano in grado di riempire le aule. Questa forma approfondita di cristianesimo, però, non divenne mai condizione per l’ingresso dei semplici cristiani, ma restò, in certo modo, piacere privato di un ceto particolare, vale a dire quello dei teologi. Di nuovo fu un filosofo pagano ad analizzare, con parole chiare, questa integrazione degli opposti (semplicità e profondità intellettuale), nel cristianesimo, che ebbe grande successo:

”La filosofia cristiana (cioè la dottrina cristiana) viene definita semplice. Essa stessa pone la massima cura nella formazione etica, ma, sotto il profilo delle comunicazioni esatte su Dio, fa solo allusioni (…) Poiché anche nelle questioni etiche evitano i problemi un po’ più difficili, come per esempio che cosa siano la virtù etica e la virtù razionale (cioè una distinzione filosofica tradizionale) (…) Perciò si dedicano in particolare all’ammonizione etica. Molte persone osservano tali prescrizioni e, come puoi vedere coi tuoi occhi, fanno grandi progressi riguardo alla virtù e un senso di pietà si fissa nel loro comportamento.”

Il filosofo pagano ha osservato bene: la dottrina cristiana, proprio grazie alla concentrazione sui critieri etici e sui tratti fondamentali di dottrina di Dio, con la rinuncia a speculazioni complicate, può rendere la fede cristiana pratica, rendendo possibile, a persone di diversa condizione intellettuale e fisica, di farne la propria forma di vita, di farne un habitus.

Abbiamo visto che l’intensa attività diaconale, la competenza nella guarigione di malattie individuali e, al tempo stesso, la semplicità e profondità del messaggio cristiano non solo fecero superare l’età antica alla religione cristiana, in sé e per sé priva di opportunità, ma contribuirono alla sua vittoria su tutti gli altri culti e religioni. C’è un’ultima questione che dobbiamo affrontare, alla fine della nostra prima parte: sono sufficienti, queste spiegazioni storiche e sociologiche? Non fu Dio stesso a infondere forza alla sua Parola, ad operare quel che aveva promesso? Naturalmente, noi proclamiamo così e, naturalmente, così insegniamo. Ma è terribilmente arduo e, in ultima analisi, anche teologicamente fuorviante, osservando il passato, stabilire quale percentuale del successo del cristianesimo antico vada attribuita a tali opportunità insite nella dimensione terrena e quale percentuale vada assegnata all’opera della grazia di Dio. Perché senza l’azione di grazia di Dio non sarebbe avvenuto niente di tutto questo. Questo ci conduce alla seconda sezione della seconda parte di questa conferenza: alle osservazioni sulle opportunità del cristianesimo nel XXI secolo.

Anche interrogandoci sulle opportunità del cristianesimo in questo XXI secolo agli inizi, come fu per il cristianesimo antico abbiamo, in primo luogo, una risposta molto pessimistica. Franz-Xaver Kaufmann, sociologo di Bielefeld morto di recente, cattolico devoto, già alcuni anni fa intitolò un tascabile “Il cristianesimo sopravvivrà all’Età Moderna?”. I sintomi di crisi, che sembrano far diminuire le possibilità del cristianesimo, almeno qui in Europa Centrale, le abbiamo già elencate accennandovi in precedenza; la lista potrebbe essere continuata e approfondita.

Come nell’antichità, si può presupporre che le possibilità del cristianesimo, in Età Moderna, siano calate fortemente, almeno in Europa Centrale; perché il fatto che in Europa Orientale, in Sudamerica e in Africa il cristianesimo abbia un boom così come fanno le religioni lì, non ha bisogno di lunghe spiegazioni. A prima vista, le opportunità del cristianesimo di conservare la sua forza capace di plasmare la società, nell’Europa Centrale sembrano essere calate drasticamente, negli ultimi decenni, e rischiano di calare ancora di anno in anno. Tuttavia, voto a favore del fatto che noi, come anche già accaduto con l’antichità, esaminiamo le cose più a fondo, con particolare cura per il contesto. Nel farlo, mi oriento a tre punti che abbiamo  tenuto presenti nella sezione precedente di questa seconda parte, come grandi opportunità del cristianesimo nel mondo antico: diaconia sociale, competenza nella guarigione di stati di fragilità individuali e, al tempo stesso, semplicità e profondità del messaggio cristiano.

In primo luogo, la diaconia non resta forse anche una grande opportunità per il cristianesimo, nel XXI secolo? Di più: il suo valore non sale forse di anno in anno? Il sistema sanitario pubblico di tipo tradizionale non è più finanziabile nella maggior parte degli stati europei; tutte le strutture statali, che hanno sostituito le strutture cristiane di welfare, collassano gradualmente. Non c’è forse bisogno, come nell’antichità, di nuovo dell’impegno particolare dei cristiani? Non c’è forse di nuovo bisogno, come nell’antichità, di ostelli, gestiti e finanziati dai cristiani, per gli stranieri, di rifugi per i mendicanti e di asili per giovani donne? Non abbiamo forse bisogno di nuovo, in molte metropoli, di istituire distribuzioni gratuite di cibo ai poveri, che in Germania sono i punti di distribuzione delle comunità, denominati “Laib und Seele” (“Pagnotta/corpo e anima”)? Il grandissimo successo di strutture specifiche, aperte negli ultimi anni, testimonia la bontà di tale approccio. Penso, per esempio, anche alle diverse mense e alloggi di fortuna nelle grandi città, come Berlino, spesso ricavati anche in grandi edifici di chiese non più usati.

In secondo luogo, non sarebbe forse opportuno tornare a prestare attenzione alla competenza cristiana nella cura delle malattie, in gran parte affidata alla  professione medica, alla ricerca medica e alle grandi cliniche?  Non risiede forse qui una grande opportunità per il cristianesimo del XXI secolo? Naturalmente, lungi da me la critica banale agli ospedali e ai medici o addirittura il propugnare la reintroduzione di pratiche magiche in concorrenza con la medicina scientifica. Ma se ci si rende conto di quanto i contesti psicosomatici siano importanti per l’insorgenza  di malattie e per il loro diventare croniche, allora restano campi a sufficienza per i cristiani senza formazione sanitaria per collaborare con i medici alla guarigione di malattie, evitando di abbandonare questo campo della vita umana ai guaritori professionisti (e molti semiprofessionisti) della nostra società. Osservo, come penso anche voi, che nelle Chiese cristiane aumentano tali offerte. Poiché di certo c’è da dividere il grano dal loglio e c’è da discutere se debbano esserci culti di guarigione con benedizioni speciali o se non sia preferibie rafforzare le competenze di laici cristiani nei colloqui di cura d’anime e organizzare meglio i servizi visite negli ospedali. Ma sono questioni singole. Più importante è che noi comprendiamo che la riscoperta della competenza guaritrice di ogni singolo cristiano è una grande opportunità per il cristianesimo nel XXI secolo e che agiamo di conseguenza.

Come terzo punto cito una maggiore attenzione alla tensione tra semplicità e profondità nel messaggio cristiano. Le due cose devono restare unite. Vicari e pastori, dopo gli studi universitari, devono essere in grado di predicare e spiegare il cristianesimo in modo semplice e comprensibile. La storia orripilante del vicario che, alla domanda “Signor pastore, dov’è ora mia nonna morta?”, rispose: “io seguo la tesi della morte totale!”, non può diventare realtà, tacitamente accettata, nelle nostre comunità. Ma, al tempo stesso, bisogna anche evitare che il cristianesimo si sviluppi in forma di saggezza banale sulla politica quotidiana, senza possedere competenza in materia di scienze politiche o che si adegui a criteri moderni di condotta di vita e di visione del mondo. Ci mette in guardia da tali appiattimenti la Dichiarazione teologica di Barmen del 1934, di cui quest’anno celebriamo il 90° anniversario e sulla cui validità per il presente vale sempre la pena riflettere. Dobbiamo fare attenzione a parlare del cristianesimo in modo da far comprendere la semplicità di tale messaggio, come pure la sua profondità. Ciò mi pare essere una grande opportunità, nella nostra società, anche per il fatto che, in tutti i partiti politici, possiamo vedere quanto poco la politica si orienti ancora a valori e norme. In una società che, in misura crescente, di fa dire ciò che vale da tendenze e sondaggi d’opinione, il cristianesimo ha una grande opportunità.  I cristiani sono gli avvocati dei valori e delle norme, che devono essere e restare i fondamenti irrinunciabili di ogni politica, a prescindere dal colore del partito. Ma i cristiani sanno anche distinguere tra valori e norme veri, da una parte, e mode e ideologie dall’altra, perché conoscono la differenza tra ciò che è transitorio e ciò che non è transitorio. Dobbiamo tornare a parlare con decisione, tra di noi, dei valori e delle norme cristiani; accordarci su standard sobri e rappresentare anche, con decisione, nella società, questi standard, perfino quando ciò a prima vista appaia scomodo e poco in sintonia con i tempi. Sono fermamente convinto che molte persone attendano tali chiarimenti e che essi costituiscano una delle maggiori opportunità per il cristianesimo nel XXI secolo.

Dopo aver paragonato le opportunità del cristianesimo nell’antichità e nel XXI secolo, concludo con l’annunciata profezia retrospettiva. Se vogliamo sfruttare le opportunità del cristianesimo e dar forma al futuro del cristianesimo, per quanto dipenda da noi, allora mi sembra urgentemente necessario che reimpariamo a parlare di più, nelle nostre comunità, di cristianesimo e fede cristiana e che non lasciamo tali discorsi agli specialisti, cioè ai docenti di teologia, professori e professoresse, e ai/alle pastori/e.  La formazione dell’habitus della vita cristiana e la propagazione dei valori cristiani riescono solo se ne parla, anche. La crescente incapacità di parlare nelle nostre comunità; l’influsso crescente di un linguaggio religioso preso a prestito, che non è il nostro; l’introduzione, anche qui, di cosiddette “parole di plastica” sono segnali di allarme che non dobbiamo trascurare. Si deve imparare a parlare di cristianesimo e fede cristiana; ma si può impararlo anche, e nel modo migliore,  in comunione, in comunità locali cristiane che funzionano bene: questa è la tradizione della Riforma riguardo il sacerdozio universale dei fedeli, che merita sempre attenzione e cura costante. Infine, quest’attività in favore della società è sotto la promessa di grazia di Dio, secondo cui, anche qui la sua Parola non tornerà a lui vuota. Certo, non ci viene detto che ogni nostra impresa avrà successo e sarà fortunata, ma è indubbio che il nostro lavoro nel suo complesso sia benedetto e possa essere sostenuto dallo Spirito Santo.

È difficile, a fronte delle prospettive cupe di futuro, trovare il centro giusto tra reazioni estreme. La pura eccitazione non basta, perché porta all’iperventilazione non professionale e non produttiva. Ma la pura serenità, a partire dalla quale si può agire sempre meglio e che, sul piano teologico, si può fondare bene, in certa misura (infine è Dio che mantiene la Chiessa e non il suo personale di terra terreno) , secondo la mia opinione non è più sufficiente. Un certo grado di preoccupazione è ragionevole, perché dev’essere intrapreso qualcosa, per non far avverare le previsioni, cui abbiamo accennato, del centro di ricerche di Friburgo, riguardanti lo sviluppo delle due grandi Chiese in Germania. Anzitutto, sarebbe necessario che tutte le figure professionali della Chiesa svolgessero il loro lavoro con la professionalità che viene pretesa anche in altri ambiti, in particolare della libera economia: nella mia città, Berlino, ci sono comunità, di cui non voglio fare il nome, in cui il pastore non fa visita a nessuno in occasione del compleanno, non scrive messaggi di auguri, non si preoccupa delle infiltrazioni d’acqua nel cemento poroso delle navate; ha disdetto il contratto di manutenzione dell’organo per presunte necessità di risparmio, ottenendo come risultato che le grandi canne dei bassi adesso rischiano di cadere dall’alto, rendendo necessarie riparazioni costose, e nessuno sa più gestire il sistema, piuttosto complesso, di riscaldamento della chiesa. Tali problemi possono essere risolti in tempi relativamente rapidi con una gestione del personale adeguata ai tempi ed estesa a tutte le Chiese. In secondo luogo, la formazione delle future figure pastorali, che è ancora legata ad un modello tedesco, ottocentesco, di formazione degli insegnanti, dovrebbe essere più adeguato alla clientela che studia attualmente, che, comunque, non proviene più, in maggioranza, dalla borghesia, come accadeva prima, e che deve essere resa capace di comunicare la prassi ecclesiale odierna.

Ma, fortunatamente, nelle nostre Chiese ci sono sempre schiere di persone altamente motivate e impegnate, disposte ad assumersi responsabilità nella Chiesa e per la Chiesa. Lavorare e operare con loro, di solito è perfino un vero piacere. E non solo per questo guardo con ottimismo al futuro. Perché credo che le offerte centrali della Chiesa, come un culto domenicale ben preparato e tagliato su misura della singola comunità; culti concepiti con sensibilità, in occasione di grandi eventi della vita e un accompagnamento attento nella cura d’anime di coloro che sono vicini e lontani, siano richiesti come sempre, e così pure le forme nuove e l’attività musicale-culturale nelle grandi città e le offerte specifiche del Paese. Solo se la Chiesa avesse perduto la sua fiducia nelle proprie competenze e nell’obiettivo centrale, ci sarebbe davvero il panico. Ma, altrimenti, anche qui in Europa possiamo rallegrarci del futuro del cristianesimo.

 

Christoph Markschies, Das antike Christentum. Frömmigkeit, Lebensformen, Institutionen, Beck’sche Reihe 1692, 3., durchgesehene und erweiterte Aufl. München 2016 = Il cristianesimo antico. Religiosità, stili di vita, istituzioni, Strumenti 83, Turin 2022 (trad. Gianfranco Forza).

Il futuro del cristianesimo – Prof. Dr. Dr. h.c. mult. Christoph Markschies